Titolo: Il racconto dell’ancella
Autore: Margaret Atwood
Edizione:Ponte delle Grazie, 2017
Pagine: 400
(prima ed.It. 1998)
Se sei un uomo, in qualsiasi tempo futuro, e ce l’hai fatta sin qui, ti prego ricorda: non sarai mai soggetto alla tentazione del perdono, tu uomo, come lo sarà una donna. È difficile resistere, credimi. Ricorda però che anche il perdono è un potere. Chiederlo è un potere, e negarlo o concederlo è un potere, forse il più grande.
La donna che dà voce al racconto è un’ancella della repubblica di Galaad.
Non è casa sua quella da cui scrive, non è sua la camera con le catene alla finestra, né la famiglia che la ospita. Nemmeno il nome con cui la chiamano può definirsi suo. Difred è solo un patronimico che onora Fred, il Comandante a cui appartiene.
Un giorno, in un passato che emerge a brani dai suoi ricordi, i Galaadiani hanno preso il potere, e riorganizzato la società su base teocratica, con metodi repressivi. Il primo passo è stato privare le donne di ogni libertà: ciò intendono le Zie del Centro Rosso, in cui le ancelle vengono addestrate, con “libertà da”: dalla possibilità di essere autosufficienti a livello economico a quella di avere accesso al denaro; dalla possibilità di avere una famiglia, che non sia sancita da un patto religioso, alla possibilità di avere libera gestione del proprio utero.
Tra pubbliche esecuzioni e le contraddizioni tipiche di ogni dogmatismo, l’obiettivo è quello di salvare la specie umana dall’estinzione, a seguito di un presunto calo delle nascite dovuto a un, non meglio definito, agente esterno. A Galaad ogni donna è, di fatto, simulacro della vita. Ogni donna capace di generare, ovvio.
Per tutte le altre (le non donne, e le economogli ad esempio), spetta una vita ai margini, breve e fatta di fatiche e sofferenze.
Il racconto dell’ancella: storia dei vinti
Per la maggior parte del tempo Difred sente che il tempo in cui vive è sospeso. Una lunga attesa, la pausa che si è concessa anche da sé stessa, per sopravvivere da ogni forma di emotività. L’atarassia in cui lascia scorrere la sua vita è spesso anche la sua salvezza. Lei stessa sa che pensare non è un bene: fingere, quello è un buon compromesso.
Margaret Atwood riesce a darci la sensazione vivida dei pensieri che si ripiegano su se stessi, quando si perde ogni libertà. C’è poco spazio per gesti eroici nella vita degli abitanti di Galaad, tantomeno per le donne. Sono suddivise in un ordine definito, con cui sarà facile familiarizzare nel corso della lettura, perché semplice nella sua classificazione, com’è semplice distinguere un azzurro da un rosso o un rosso dal verde, nella tavolozza di colori pastello che le identificano.
Lo sguardo dell’ancella coglie, tra le alette, i segni di un’isteria che colpisce la società a ogni livello: c’è chi perde la ragione durante le esecuzioni pubbliche, e chi uccide per una svista. I Comandanti e le loro mogli non sono da meno: forse, come sempre accade per chi detiene il potere, hanno solo meno da perdere.
I ricordi sono faticosi. La storia procede in un ordine che non è cronologico, ma scandito da immagini evocate dal passato, che si sovrappongono al lento decorrere delle giornate a Galaad. Nel costante terrore di finire sotto gli occhi degli Occhi. Parlare è pericoloso, pensare lo è forse di più.
Ho il respiro affannoso, e il cuore mi batte come il martellare di notte alla porta di una casa dove si pensa di trovare rifugio. Va tutto bene, sono qui io, dico, sussurro. Ti prego sta’ zitta, ma come può capire? È troppo piccola, è troppo tardi. Ci separiamo […] non rimane altro che una piccola finestra, molto piccola, come il lato sbagliato del cannocchiale, […] l’immagine di lei che tende le braccia verso di me, mentre la portano via. […] Di tutti i sogni questo è il peggiore.
L’ancella ascolta i sussurri nella casa silenziosa in cui segreti e pettegolezzi continuano, come se la vita fosse quella di sempre.
Ogni mese aspetto il sangue, impaurita, perché se arriva significa incapacità. Sono stata di nuovo incapace di esaudire le attese altrui, che sono divenute mie.
Difred, l’ancella del comandante Fred, vuole svolgere il suo compito. Si è tolta di dosso un sacco di cose che non le servono: l’indignazione, la rabbia, il pensiero di chi ha perso.
Voglio continuare a vivere in qualsiasi modo. Consegno il mio corpo nelle mani di altri. Possono fare di me quello che vogliono. Sono un essere abbietto.
Per la prima volta sento veramente qual è il loro potere.
Come definire meglio la follia alienante di un regime, vero o di fantasia esso sia? La visione è frammentata, ma lacerante, perché nasce dall’interno del sistema e porta con sé la sensazione di esserci finiti dentro, per un po’.
Certo poi chiudi il libro e ne sei fuori.
Implicite associazioni
Come tutti gli storici sanno, il passato è un grande spazio buio, colmo di echi. Le voci che ci raggiungono di lì sono intrise dell’oscurità della matrice da cui provengono, e, per questo, per quanto ci si provi, non sempre possiamo decifrarle con esattezza alla luce più chiara del nostro tempo.
Come tutti gli storici sanno, e un po’ lo abbiamo sempre saputo anche noi, le voci che ci arrivano sono di solito quelle dei vincitori.
Un bell’articolo che ho letto sulla rivista Robot n. 82, a firma di Anna Feruglio Dal Dan (autrice di Senza un cemento di sangue, DelosBooks, 2017) , mi ha fatto pensare che anche la letteratura che leggiamo, i bei romanzi, i bravi autori che rimangono impressi nella nostra mente sono solo frutto di un’azione collettiva. Con tutta la limitatezza e l’assunzione di certezza del pregiudizio, di cui è fatta l’opinione dell’uomo comune. L’uomo comune, non la donna.

Nell’articolo si parla del meccanismo per cui nella letteratura, facendo l’esempio specifico della fantascienza, oltre a rari casi come la Atwood, e Ursula Le Guin, sono poche le scrittrici rimaste nella memoria degli appassionati o meno.
Ci sono settori, molti in realtà spiega l’articolo, in cui essere uomo può aiutare molto.
Non ci credete? Eppure lo dicono le statistiche, ed alcuni esperimenti tipo quello in cui il candidato Brian Miller risulta avere il 75% di possibilità di essere assunto per un ruolo accademico, rispetto a Karen Miller, che non raggiunge il 50% di risposte positive. Queste ultime ottenute con una offerta economica più bassa, tra l’altro.
Certo, la questione è delicata e si fa presto a cadere nella sindrome della persecuzione immaginaria. L’’esempio dimostra che entrambi avevano gli stessi identici requisiti, e offrivano le stesse identiche disponibilità ai selezionatori. Dite che è impossibile? Avete ragione. Sia Karen che Brian non esistono e i loro profili sono stati inventati dai ricercatori. Ma i selezionatori (e le loro risposte) erano reali. Sia maschi che femmine, e di diverse età.
Così come, spiega Anna Dal Dan, è facile che nelle classifiche di libri il numero di titoli a firma femminile siano meno presenti, come nelle librerie. Basta farsi un giro nelle sezioni fantascienza e iniziare a contare. Non perché quelli scritti da donne siano meno belli da leggere, ma per quei meccanismi per cui nelle vetrine si tende ad esporre quello verso cui l’utente medio viene attratto più volentieri. Si da per certo che un romanzo di fantascienza a firma maschile attiri più lo sguardo di quello scritto da una donna; prima ancora di averlo letto, è questo il punto.
Questo innesca una reazione a catena, per cui i libri che circolano di più, parlando soprattutto di fantascienza, sono quelli scritti da uomini.
Non vi ho convinto ancora?
Esiste un test, elaborato dall’università di Harvard, che mira a far emergere come gli stereotipi agiscono sulle nostre scelte. Si chiama test di associazione implicita e lo troverete a questo indirizzo: https://implicit.harvard.edu/implicit/italy/
Io ero curiosa e ne ho provato uno.
Vi farà riflettere, e magari la prossima volta che vorrete consigliare un libro terrete conto di quell’esercito di brave scrittrici del fantastico di cui si sente parlare meno, rispetto ai soliti noti scrittori-alpha.
Amal El Mothtar (che mi ha stregato con un racconto sulla rivista di cui sopra), Anna Feruglio Dal Dan, Elena di Fazio, Giullia Abbate, Pat Cadigan, Nicoletta Vallorani, Paola Pallottino, solo per citarne alcune. E cosa dire di chi ha pubblicato opere sotto pseudonimo? Leonia Celli come Lionel Cayle; Nora de Siebert come Norman McKennedy e molte altre.
C’è molto da scoprire, non c’è che dire, sull’altra metà dei narratori dell’universo sconosciuto.